Nove anni di difficoltà economiche: «Scaricano il rischio di impresa su di noi»
Domenica La Sicilia non è uscita. Troppi gli arretrati, tante le promesse non mantenute in nove anni di rassicurazioni finalizzate a ottenere sacrifici da parte di una redazione che, adesso, ha deciso di puntare i piedi. Anche a seguito dell'iniziativa di alcuni collaboratori i quali, stanchi di continuare a lavorare senza ricevere compensi, hanno deciso di tirare i remi in barca e fermarsi. Così, per la prima volta dopo 70 anni, il giornale più rinomato di Catania non è andato in stampa. In quella «redazione che ha visto fuoriuscire fior di giornalisti per prepensionamenti - si legge in una nota diramata ieri dal comitato di redazione -, otto pochi mesi fa, ai quali si aggiungono due esodi volontari». Per questo redattori, collaboratori e funzionari amministrativi de La Sicilia, il giornale diretto da Antonello Piraneo, hanno proclamato uno sciopero. La decisione «sofferta» è arrivata dal Comitato di redazione «dopo avere preso atto, per l'ennesima volta, che l'editore e chi in questi anni, dopo i tempi delle vacche grasse, ne ha ispirato le mosse, ritiene che il corpo redazionale possa campare d'aria, ovvero possa produrre instancabilmente senza avere riconosciuti i propri sforzi con quello che altrove rappresenta la normalità: lo stipendio».
Stiamo parlando - per dovere di cronaca - del giornale edito dalla Domenico Sanfilippo Editore, il cui patron Mario Ciancio è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo stesso giornale in cui scriveva Tony Zermo, in cui si pubblicavano le lettere di Santapaola e Cappello e non si pubblicava il necrologio di Beppe Montana. Proprio nella redazione di viale Oderico da Pordenone si è tenuto l'incontro oggetto di testimonianza nelle aule di giustizia, tra Pippo Ercolano e Mario Ciancio per un articolo pubblicato a firma del giornalista Concetto Mannisi, quando il boss mafioso ha lamentato, nello studio del direttore, «un potenziale danno di immagine e di rivalersi sul giornale» perché nell'articolo lo si menzionava come boss. E questa è storia. Una storia che, però, rivive nelle aule di giustizia proprio nell'ambito del processo dell'ex direttore e attuale editore de La Sicilia. Circostanza che, peraltro, non ha permesso a La Sicilia, come sarebbe stato nelle intenzioni di Domenico Ciancio, figlio di Mario, di creare una fondazione ad hoc con cui poter risollevare le sorti del giornale e assicurare garanzie ai dipendenti. Dipendenti che con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa non c'entrano niente. In mezzo ci sono le mancanze dell'Ordine dei giornalisti che dovrebbe tutelare i professionisti e non lo fa. E i sindacati che dovrebbero spendersi in battaglie più consistenti, piuttosto che cercare mediazioni che non agevolano nessuno se non l'impresa editoriale nelle persone di chi la gestisce.
Svanita, almeno per il momento e fino a conclusione del processo, l'ipotesi fondazione, la speranza che nel breve periodo si possano ripristinare normali condizioni di lavoro è diventata vana. Ma, al di là dei recenti episodi, le mancate garanzie degli stipendi costituiscono un questione atavica a La Sicilia. Il giornale, infatti, negli anni ha visto ridurre il numero di collaboratori, molti dei quali andati via proprio perché non ricevevano i compensi da più di un anno. Si tratta di collaboratori di cronaca, sport e cultura pagati cinque euro ad articolo. «Parliamo di sacrifici economici, innanzitutto, visto che da nove anni, fra Cassa integrazione e solidarietà, gli stipendi dei giornalisti sono puntualmente tagliati con percentuali comprese fra il 20 e il 40 per cento», incalza il comitato di redazione. «Non sappiamo dove si è inceppato il meccanismo - racconta una giornalista che collabora con La Sicilia -, pensiamo che ci sia stata l'intenzione di scaricare sui collaboratori il rischio di impresa perché i cud vengono emessi ma su importi mai percepiti e su cui molti devono pagare le tasse». Ed è proprio tra i collaboratori che si respira l'aria più pesante. «Speravamo che questa presa di posizione dei redattori arrivasse prima - continua -, ma meglio tardi che mai». Qualcuno invece, come tanti altri che hanno mollato molto prima, non riesce più a resistere. «Sono stanco di farmi prendere in giro - è il commento sconsolato di un altro collaboratore -, non so più nemmeno da quanto tempo attendo i pagamenti».
Tuttavia c'è ancora chi, quella speranza, la nutre ancora. E il fardello che tiene viva quella fiamma sarebbe la nomina del nuovo amministratore unico Santo Russo. «Anche se - commenta un'altra giornalista - il periodo più virtuoso sul fronte dei pagamenti è stato quello del commissariamento, che ha coinciso anche con il vero passo nella modernità del giornale stesso». Ma le ombre che il quotidiano sia sempre stato assoggettato a una linea editoriale viziata dalla politica e, come da processo, da fattori mafiosi esterni, difficilmente riusciranno a cedere il passo a nuovi orizzonti. «Nessuno si è mai permesso di censurare miei articoli - assicura però chi riempie le pagine del giornale nella cronaca di Catania e che come altri attende il pagamento di quindici cedolini - I caporedattori, soprattutto, ognuno a modo suo, hanno capito come lavorare insieme, non per questo senza discussioni, alla fine sempre utili». E, aggiunge, «anche se hanno di certo più tutele dei collaboratori esterni, hanno anche loro giuste rivendicazioni da fare, stavolta forse ricordandosi anche di noi», sostiene. Per loro, il ritardo nei pagamenti degli stipendi ammonta a due mensilità. «Non sappiamo come andrà a finire - conclude - l'unica cosa certa è che se ho potuto raccontare a modo mio, con occhi critici, ciò che succede in città è solo grazie a loro».