
«Ha negato i fatti e ogni coinvolgimento fino all’ultimo»
C’è una storia che vale la pena di raccontare. È una di quelle storie fatte di cattiveria e ingiustizia. Una storia di violenza lunga dieci anni che termina con un lieto fine. È la storia travagliata di Carla. Gli ultimi anni della sua vita li ha passati dietro al processo per molestie e violenza sessuale finito con una condanna a sei anni e sei mesi di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici e da qualsiasi incarico di tutela e curatela per Antonio Pezza. Il violentatore arrestato in flagranza di reato nel 2016. «È stato bellissimo, non me l’aspettavo. L’udienza è stata molto sentita da tutti. Ho registrato il coinvolgimento da parte dei tanti che mi hanno aiutata».
Si conclude così parte del calvario di Carla che fino a quel momento non aveva avuto una vita facile. Il suo passato è infatti segnato da una rapina in cui era stata coinvolta dal marito poi recluso in carcere e da una lite in famiglia finita con la morte della madre. Una vicenda per la quale Carla era stata costretta a rivolgersi ai servizi sociali allo scopo di rifarsi una vita e avviare le pratiche per un sostegno per lei e il figlio, all’epoca ancora minorenne. È lì che conosce Maria Jose Vitale, moglie di Antonio Pezza. Ma il procedimento che avrebbe dovuto portarle un po’ di serenità si è trasformato presto in un incubo.
«Mi dice che, con la mia situazione, non avrebbero trovato mai niente per me e così mi propone di andare a lavorare a casa sua», è tra le dichiarazioni di Carla risultanti dalle carte del processo. Vitale era anche responsabile della procedura amministrativa di affidamento del figlio di Carla, incarico poi rimosso dal Tribunale dei minori all’avvio del procedimento penale. «Mi diceva che era intenzionata a prendere lei in affidamento il bambino – racconta – E io, da madre, mi sono sentita morire». Circostanza, questa, poi contestata in dibattimento. «La Vitale non avrebbe mai potuto prendere in affido il bambino», è tra le ragioni fatte valere dai legali che hanno assistito Carla.
Così finisce con il lavorare a casa di Vitale. E ci lavora con a fianco il marito della dirigente. In quella casa subisce tre anni di violenze. Episodi che hanno il loro culmine nel 2016, quando Carla decide di rivolgersi ai carabinieri che organizzano diversi appostamenti per tracciare i movimenti di Pezza e poi un altro, l’ultimo, in casa della coppia Pezza-Vitale. Quello che ha permesso l’arresto di Pezza. «Li ho visti sul divano uno sopra l’altro, la signora era nuda solo nella parte inferiore e Pezza aveva i pantaloni abbassati e, senza mutande, si avventava contro la signora che si dimenava tentando di sottrarsi alla pressione – ha raccontato una dei militari ai magistrati – Era abbastanza agitata e impaurita, così sono intervenuta presentandomi come carabiniere e ho chiamato i miei colleghi».
Comincia così un processo durato quasi dieci anni dove a spuntarla è stata Carla. Conclusosi pochi giorni fa con una sentenza di condanna per Pezza e il sequestro e la contestuale confisca di materiale pornografico tra cui video sadomaso e oggetti per provocare piacere fisico nonché la condanna al pagamento di diecimila euro in favore di Carla a titolo di anticipo sulla somma dovuta per il risarcimento del danno. Ed ecco il lieto fine.
La storia di Carla però si snoda tra pubblico e privato con ripercussioni per la donna che sin dall’inizio del processo hanno condizionato la sua vita. Nel bene e nel male. Ci sarebbero state infatti tante ritorsioni o presunte tali perpetrate ai suoi danni che consisterebbero nell’ostilità da parte di alcuni uffici comunali. Che hanno provocato difficoltà a tratti ostentate da dinamiche burocratiche che lasciano spazio a molteplici perplessità. Come, per esempio, l’incompatibilità di incarico della dirigente comunale che da una parte era datrice di lavoro di Carla (senza contratto, lo precisiamo) e dall’altra si occupava della pratica per l’affidamento del figlio. Che, peraltro, avrebbe voluto adottare.
Il desiderio di Vitale, per Carla, sarebbe stato frutto di un convincimento basato sulla presunzione che la donna stesse in carcere almeno tre anni. «Invece sono uscita dopo quattro mesi e il bambino fortunatamente è rimasto con me con l’aiuto dei servizi sociali», racconta Carla a questo giornale. «Sono state tante le persone che hanno mentito e dichiarato di non conoscermi – dice – sebbene mi conoscessero bene e avessero con me instaurato un rapporto di amicizia». Per Carla Pezza resta «una persona che fino all’ultimo ha negato i fatti, ogni coinvolgimento e ogni azione violenta fino al punto di accusare gli stessi carabinieri di falso».