Lo stato dell’arte dei depositi tra manutenzione carente e condizioni di degrado
Da una parte la sede aziendale. Bianca, splendente, marmorea, imponente. Dall'altra la siccità, gli invasi, gli acquedotti, le riserve acquifere. Desolate e malridotte. È la contrapposizione evidente tra ciò che è riservato alle sedi del potere e ciò che residua ai cittadini: locali fatiscenti, condotte con rattoppi alla buona, tubature di ricambio lasciate qua e là. Sono le condizioni dei terreni in cui insistono i pozzi, talvolta coperti da grandi lastre di metallo arruginito, di Acoset, l'azienda interamente a capitale pubblico partecipata da venti comuni etnei.
Nei serbatoi realizzati in cemento o in pietra lavica sono evidenti i segni di logoramento. La ruggine è presente nelle strutture, le tubature consumate e sfibrate. Scheletri di edifici lasciati al degrado. I muri perimetrali delle strutture sono ridotti in malora: in alcuni casi la muffa ricopre intere pareti esterne ormai piene di infiltrazioni d'acqua probabilmente per le troppe perdite che si registarno negli anni alle quali non segue una corretta manutenzione.
Tra gli altri, il pozzo Saicop di via Gaudioso a Pedara è ridotto in pessime condizioni di cui, a dire dei cittadini che subiscono costanti carenze di fornitura, nel 2020 era stata promessa la ristrutturazione. «Ma non se n'è saputo più niente», spiegano alcuni residenti della zona. Le cose potrebbero cambiare con l'accorpamento di Ati e società dell'acqua sotto un unico gestore. La cui convenzione è stata già approvata, ma la politica fa resistenza.
Nel frattempo la crisi idrica continua. A Catania si resta senz'acqua per intere giornate e le difficoltà non mancano nemmeno nei paesi alle pendici dell'Etna. La siccità non aiuta di certo, ma da quando è stata costituita - nel 1999 quando da Consorzio Acquedotto etneo si è trasformata in Acoset - la partecipata ha assunto le forme di un carrozzone politico nelle mani dell'Mpa piuttosto che di una società che avrebbe dovuto integrare risorse e fonti idriche e pensare alla manutenzione dell'esistente.
Basti pensare al serbatoio d'acqua che si trova in via Armando Rapisarda, a Mascalucia, che serve il quartiere perifierico di San Giovanni Galermo. La struttura del deposito è rimasta danneggiata per cinque anni: un buco sul soffitto da cui sgorgava un ingente quantitativo d'acqua. Un danno a cui i tecnici di Acoset hanno messo mano solo dopo la pubblicazione di questo articolo. La riparazione è consistita nell'installazione di un tubo di collegamento tra il foro in cui si registrava la perdita e la vasca di contenimento.
I serbatoi d'acqua in funzione nei territori alle pendici dell'Etna
Tra i depositi acquiferi dislocati sul territorio etneo ci sono pozzo Pulcino a Santa Maria di Licodia, i sistemi Saicop, Macrì, Sacro Cuore e Muri Antichi a Pedara, il bacino Piano Elisi, i pozzi Difesa, Segreta e San Leo a Belpasso, e il pozzo Serafica a Nicolosi.
Dal problema alla soluzione: il passaggio al gestore unico (le carte)
Manutenzione dell'esistente. Certamente non può definirsi manutenzione il rattoppo alla buona nei casi in cui si verifica una perdita o un'emergenza. Queste, peraltro, sempre più ricorrenti. La domanda allora sorge spontanea: che senso ha riparare le condotte d'acqua quando il problema vero è alla fonte? Quando non si riesce a tenere in buone condizioni nemmeno uno dei pozzi - questa è un'esagerazione giornalistica - in mano alla partecipata dell'acqua?
«Non ci esonoriamo da alcuna responsabilità - stigmatizza il direttore dell'azienda da giugno 2022 Antonio Coniglio -, ma le difficoltà derivano principalmente dalla carenza di acqua e, inoltre, diventa particolarmente complicato effettuare investimenti con pochi tecnici e un milione e mezzo di euro l'anno». Ovvero la cifra residuale derivante dalla sottrazione dell'introito generato dalle bollettazioni pari a circa 90 milioni di euro annui meno i costi. «Solo nel 2022 per coprire i costi energetici abbiamo speso 18 milioni di euro», calcola il direttore.
L'operazione è frutto del principio di autofinanziamento degli enti pubblici, il Full recovery cost, secondo cui l'azienda si finanzia con il ricavato delle tariffe. «Nello stesso le somme residuali ammontavano a un milione e mezzo di euro - continua -, con cifre così irrisorie e con 87 dipendenti diventa particolarmente complicato coprire i costi ed effettuare gli interventi in 20 Comuni per una rete di circa 1.800 chilometri».
Una soluzione immaginata ma con non poche perplessità nell'attuarla è l'accorpamento sotto un unico gestore. Procedura in essere e che prevede il passaggio del personale alle dipendenze e sotto la direzione di ununico soggetto. Così, le attuali società dell'acqua assumerano il ruolo di società di servizi. «Per intenderci - spiega il direttore - si occuperanno di sostituzione e lettura dei contatori, servizi finanziari amministrativi e ulteriori servizi accessori».
Per questo, per Coniglio è di fondamentale importanza che il passaggio al gestore unico avvenga nel più breve tempo possibile. «Anche se - sottolinea il direttore - ci sono forti resistenze sul passaggio perché si mette in discussione la governance, ma solo la trasformazione del sistema può risolvere la frammentazione di tipo medievale tra enti e società». Cioè con la creazione di un grande soggetto industriale che, in teoria, potrebbe garantire un servizio efficiente. Ciò che, secondo Coniglio, conseguentemente all'impossibilità di effettuare corposi investimenti, manca adesso in Acoset. Una grana che, stando al piano d'ambito approvato dall'Ati, potrebbe essere risolta dal gestore unico «che dovrà effettuare due miliardi di investimenti - conclude Coniglio - e Acoset ha già un piano industriale approvato a fine anno».
Il caso Emanuele Mirabella e l'incompatibilità
In quel carrozzone politico che è Acoset, le gatte da pelare non riguardano solo gli interventi manutentivi, gli investimenti e la carenza di risorse economiche e di personale. Ma si registra anche un caso eclatante di conflitto d'interessi. È il caso di Emanuele Mirabella, consigliere comunale a Gravina di Catania e contemporaneamente nel cda della partecipata.
Una di quelle circostanze su cui, sebbene la legge non disciplini il caso concreto (ovvero l'incompatibilità derivante dalla partecipazione minoritaria in un'azienda pubblica dell'ente in cui il soggetto ricopre altra carica), c'è una corposa giurisprudenza in merito. Sentenze definitive della Cassazione che sanciscono l'incompatibilità anche nei casi di partecipazione minoritaria.
Sul punto il presidente Giovanni Rapisarda non si espone più di tanto: «Dagli accertamenti che hanno condotto i nostri tecnici ci pare di capire che la legge non stabilisce alcuna incompatibilità», afferma il presidente. Ciò che però avrebbe dovuto effettuare Mirabella, se non le dimissioni per una questione di correttezza, è la comunicazione dell'avvenuta elezione a consigliere comunale (successiva all'incarico nella partecipata) come assolvimento dell'onere posto a presidio della normativa anticorruzione. «Questo credo che non l'abbia fatto».